La sceneggiatura nell’Italia che cambia - Con Umberto Contarello

rassegna di AGEnda Cinema - Umberto Contarello al terzo incontro



Uno sceneggiatore divisivo lo definisce Paolo Mereghetti che gli attribuisce, per di più, i difetti della scrittura di Sorrentino quali un certo manierismo e una “deriva linguistica autocompiaciuta”… Indiscutibilmente, però, è un narratore straordinario anche fuori scena, anche a tavola dove pretende attenzione assoluta e si esibisce in un assolo strepitoso raccontando una storia che sembra inventata per stupire e divertire e che ha al centro una mastodontica pop star  sedutasi improvvidamente su un cagnolino… Divertente la storia se non si pensa al destino del povero cane che avrà, però, la sua degna sepoltura con altrettanto degna impietosa epigrafe… 

Lui è Umberto Contarello, ultimo ospite del ciclo “Scrivere cinema nell’Italia che cambia” lo scorso 27 maggio al cinema Nuovo Eden di Brescia. Arriva trafelato, nervoso, anche un po’ aggressivo dopo avere rifiutato la camera d’albergo troppo piccola per accogliere le sue inquietudini notturne grigio fumo. Si aspettava al cinema un gruppo di universitari e invece si trova un eterogeneo pubblico -ma per carità, pessima la parola pubblico che tutto appiattisce in un collettivo informe perché, in realtà, è differenziato per età, professioni, motivazioni… Si siede sulla poltrona annunciando una seduta sciamanica… E manterrà la promessa. Fa spegnere le luci. Solo lo schermo è illuminato dalla prima potente immagine, la riproduzione del grandioso affresco di Giandomenico Tiepolo, figlio del più famoso Giambattista, Il mondo novo… Il tema annunciato dell’incontro, la sceneggiatura, Contarello lo liquida in anteprima in poche battute: non si insegna, se non nella noia, un’arte che ha un nome bruttissimo. In effetti, sceneggiatura, non è un granché: troppo lungo, pesante e in rima con segatura, iattura, spaccatura… La domanda vera da porsi è che cosa sia il cinema e per rispondere occorre partire dalle sue origini… Da quell’immagine bellissima del 1791 che occupa lo schermo e che subito si presenta anomala: quasi tutte le figure sono di spalle a guardare qualcosa che l’osservatore non vede… Che cosa? Un mistero che Contarello fa risolvere in sala: le voci, con un po’ di circospezione per non suscitare la sua ironia non sempre ilare, si rincorrono nel tentativo di rispondere alla domanda… Il mare, l’arrivo al porto, uno spettacolo di saltimbanchi… Niente di tutto questo: la folla variegata si accalca per guardare una lanterna magica sbarcata dall’Oriente… C’è persino un bigliettaio, il pulcinella vestito di bianco a sinistra, e solo due personaggi in attesa si vedono in faccia mentre guardano la scena con curiosità da studiosi, con l’occhialino inforcato addirittura… Perché tanto accorrere? Perché, fin dalle origini, il cinema -e la lanterna magica ne è il suo annuncio- o genera incanto o non è. Categorico Contarello: “Stare dentro (in) un canto è il cinema. Il cinema non può essere altro che incanto”. 

C’è un’altra parola chiave per esprimere l’azione del cinema e, in genere, dell’arte, quella che si può associare proprio alla lanterna magica. Che cosa ci fa vedere il cinema? Ombre? Luce? È già nel mito della caverna di Platone? No, no, occorre dire un’azione, un verbo, che possa essere sintesi dei processi creativi. E allora via con raffigurare, rappresentare, illustrare, immaginare, sognare… In are finisce di sicuro, dice Contarello, ma non è nemmeno amare, è trasfigurare: Il cinema, come l’opera d’arte, sta nella “distanza tra la scarpa e la terra quando ci si solleva in alto”. È, di fatto, una zona di confine tra la realtà e la capacità di trascenderla. 

Per proseguire la sua master class d’autore, il regista, nell’atteggiamento del Maestro ispirato e compiaciuto, ha bisogno di un’altra immagine, quella di una stazione Termini deserta che mette in evidenza, in un bianco e nero pulito, le forme architettoniche dell’emozione. Pierluigi Nervi, il progettista, ha voluto rappresentare l’andare e il venire che si consuma in una stazione. Quale immagine unitaria li può tradurre? L’onda del mare… L’architetto l’ha voluta riprodurre nella copertura con quelle strutture di calcestruzzo in movimento rivestite da minuscole piastrelle da piscina perché: “Dobbiamo mettere il mare nel cielo” è l’imperativo. L’arte è, quindi, capovolgere lo sguardo e superare lo scontato. 

La terza immagine è una fotografia di Tazio Secchiaroli: Fellini seduto al bar Doney di via Veneto a Roma alla fine degli anni 50 quando le macchine erano poche. C’era spazio per il passeggio in conversazione come faceva Fellini con Flaiano o Age con Scarpelli -che piacere questa citazione inaspettata del nume tutelare che ha dato il nome al cineclub AGEnda Cinema. Contarello non lo dice, ma lo si intuisce: le idee delle storie, allora, nascono dai passeggi e dai cazzeggi… E la proiezione della scena finale de La dolce vita è la conclusione naturale di tutto questo vagare nei territori del possibile come sono quelli dell’arte cinematografica che esplora i misteri del comunicare e dell’emozionare. Lui, lo sceneggiatore divisivo, in sala in questi giorni con il suo impudico film L’infinito, è lì, a prendersi gli applausi, a sorridere rilassato, conquistato dalla sua stessa performance. Una sigaretta, finalmente, adesso non gliela toglie nessuno. 

Laura Forcella